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Intolleranze alimentari: il punto della situazione

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Oggi i cittadini spesso vengono travolti da un vortice di ignoranza e di ipocrisia che sta amplificando la sensazione (già avvertita da un paio di decenni) di vivere in un’epoca dominata dalle  allergie e dalle “intolleranze” alimentari.

Sono infatti sempre più popolari le diagnosi e talvolta le autodiagnosi di presunte intolleranze alimentari ed a generare paure e confusione è anche la diffusione di test  che in maniera non scientificamente validata emettono errate diagnosi di allergia o di intolleranza alimentare.

Questo può indurre ad intraprendere diete di esclusione inutili e spesso dannose, non solo dal punto di vista nutrizionale, ma anche psicosociale.

I test per le intolleranze alimentari attualmente più diffusi sono i seguenti: VEGA-test, Cito-test, DRIA-test, test muscolare kinesiologico, ALCAT-test, SARM-test, elettroagopuntura secondo Voll, Mora-test, Kondo-test, SAFT, il test del capello e le IgG anti-alimento (conosciuto anche come FIT, Food Intolerance Test).

Tutti questi test sono definiti “non convenzionali” o “non scientificamente validati” in quanto si tratta di test che non sono stati sottoposti a studi clinici specifici, rigorosi, lunghi e costosi che ne evidenziano una reale “efficacia” in termini utilità diagnostica.

Ci si potrebbe chiedere allora: ma le intolleranze alimentari esistono?

Non mi soffermerò sulla terminologia e sulle varie forme di intolleranza alimentare, temi già discussi in un precedente articolo (“Reazioni avverse agli alimenti: l’importanza della terminologia” – 11 maggio 2015), quindi mi limiterò a rispondere a questa domanda dicendo che le intolleranze alimentari esistono ma sono molto meno frequenti di quanto si pensi.

È la loro identificazione o dimostrazione che risulta spesso difficoltosa, con qualche eccezione, come ad esempio nel caso dell’intolleranza al lattosio, per la quale è ormai noto il “breath test” all’idrogeno, un test che analizza la composizione dell’aria esalata dopo aver ingerito una definita quantità di lattosio.

Può capitare che chiacchierando con un gruppo di persone alla fermata del bus la maggior parte di loro riferisca di avere dei disturbi in seguito all’ingestione di uno o più alimenti, definendosi intollerante verso quegli alimenti.

Quando gli alimenti in questione sono numerosi allora bisogna porsi un’altra domanda: sto male per colpa di questi alimenti oppure c’è qualcosa che non va nel mio organismo?

Il più delle volte non sono gli alimenti i responsabili del nostro malessere ma possono essere solo degli spettatori innocenti o in alcuni casi dei fattori di stimolo o di aggravamento che subentrano in condizioni patologiche preesistenti.

Questo significa che dietro i sintomi di una presunta intolleranza alimentare potrebbero nascondersi dei disturbi organici legati ad un danno primitivo dell’apparato digerente come ad esempio nel morbo di Crohn, nella rettocolite ulcerosa, nelle coliti microscopiche, nelle gastroenteriti eosinofile, nelle infezioni dello stomaco o dell’intestino, nelle disfunzioni epatiche o pancreatiche.

Talvolta invece i fastidi attribuiti a molti alimenti sono espressione di disturbi funzionali, il che significa che i tessuti dello stomaco o dell’intestino sono sani ma vi possono essere spasmi della muscolatura della parete intestinale, spontanei, oppure  conseguenti una distensione della parete intestinale, quest’ultima dovuta semplicemente ai gas prodotti dalla fermentazione batterica.

Può coesistere anche un abbassamento della soglia di percezione del dolore viscerale, che favorisce la percezione di dolore associata ai fenomeni appena accennati.

Queste condizioni generalmente sono connesse a particolari stati emotivi della persona che “somatizza”, ossia trasferisce su un organo o apparato gli effetti di stati d’ansia e stress, e spesso l’organo coinvolto è proprio il colon.

Recenti studi sul microbioma intestinale evidenziano come in oltre la metà dei casi  di presunte intolleranze alimentari caratterizzate da disturbi intestinali, un’alterazione nella composizione dei batteri che fisiologicamente popolano il nostro intestino sia responsabile dei sintomi di intolleranze alimentari, non solo di sintomi tipo gastrointestinale (gonfiore addominale, diarrea, stipsi, rallentato svuotamento gastrico, aerofagia) ma anche di effetti su altri organi, per via delle sostanze prodotte dai batteri e che vengono assorbite e diffuse nel circolo sanguigno, alle quali si attribuirebbero sintomi quali debolezza, cefalea, dolori muscolari, depressione del tono dell’umore.

Un esempio di condizione estrema in cui è noto l’effetto deleterio dei batteri intestinali  si ha nella SIBO, ovvero la sindrome da sovracrescita batterica intestinale, in cui una eccessiva contaminazione batterica del tenue (dovuta a fattori anatomici o ad alterazioni della motilità intestinale) può determinare dolore, flatulenza diarrea e talvolta fenomeni di malassorbimento.

D’altra parte un gruppo di studiosi recentemente ha identificato una serie di alimenti vegetali che in base alla composizione dei loro carboidrati (oligo-/di-/mono-saccaridi e polioli) sono responsabili di indurre accumulo di liquidi e gas nel colon (per azione osmotica e per fermentazione batterica) in persone con un microbioma alterato.

Sarebbe quindi possibile mettere a punto una dieta basata sulla ridotta assunzione di tali alimenti per ridurre i più comuni sintomi delle intolleranze alimentari (come gonfiore addominale ed irregolarità intestinale).

A questa dieta andrebbe aggiunto un trattamento a medio-lungo termine con probiotici (i classici fermenti lattici, ovvero i batteri “buoni” per il nostro intestino) e prebiotici (ovvero sostanze come l’inulina, che favoriscono la sopravvivenza dei probiotici), capaci di favorire un ripopolamento dell’intestino con effetti “benefici” sia sull’intestino che su altri organi ed apparati, compreso il sistema immunitario, che proprio nel comparto intestinale svolge dei ruoli fondamentali per l’intero organismo.

Il problema è che oggi sono numerosissimi gli integratori in commercio a base di probiotici e prebiotici, ognuno con un composizione diversa la cui efficacia non viene generalmente dimostrata con studi clinici seri, primo perché gli integratori non ne necessitano ai fini della commercializzazione, secondo perché i probiotici da studiare, o le loro combinazioni, sarebbero pressoché infiniti.  

In conclusione sarebbe auspicabile che i mass media favorissero un ridimensionamento delle intolleranze alimentari promuovendo tra i cittadini la diffusione di corrette informazioni da parte di professionisti qualificati e non le pubblicità ingannevoli che, se da una parte favoriscono il sostentamento degli stessi media, dall’altra minacciano la salute ed il portafogli del cittadino-consumatore.

Riferimenti bibliografici 

A diet Low in FODMAPs reduces symptoms in patients with irritable bowel syndrome and a probiotic restores bifidobacterium species: a randomized controlled trial. Staudacher HM, et al. Gastroenterology 2017.

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